Descrizione
Con questo libro postumo viene offerta al lettore la raccolta dei testi letterari di Valerio Volpini dedicati alle Marche. Un’opera che ne rivela la profonda vocazione narrativa, accanto alla fine sensibilità critica e morale che hanno caratterizzato la sua attività intellettuale.
I testi coprono l’intero arco della biografia di Valerio Volpini, dal suo esordio narrativo nel 1956 con Le querce e le streghe alle pagine dedicate alle città e ai paesaggi marchigiani di Fotoricordo e pagine marchigiane (1973).
Come scrive Fabio Ciceroni nella introduzione, “la terra, dura e scontrosa al lavoro, apre da queste pagine il suo cuore innocente, di verità, lungo un’esistenza fedelmente impegnata nella cultura civile, nella moralità e nella letteratura. Un libro rivelatore”.
In marzo con il primo giorno di sole il babbo e il nonno andavano per il campo a potare le piante che dopo le gelate dell’inverno si destavano. Uscivano coi piedi nudi dentro gli zoccoli di cuoio duro, come quelli che portano i marinai, e dopo che per tutto l’inverno avevano portato le grosse calze di lana ora, all’inizio del filare, restavano scalzi. Si aggiustavano una mannella di vinchi alla cintura, la roncola dietro la schiena e le grosse forbici a becco in tasca. Ognuno si metteva per il proprio filare iniziando da quelli vicino alla strada, cominciando il lavoro senza parlare, dimenticati l’uno dell’altro. Le forbici facevano un rumuore secco, due o tre volte di seguito, e la pianta perdeva le membra inutili. Della vite legavano i moncherini ai pali o alle canne di sostegno. Non ripetevano mai l’operazione, ogni taglio era sempre precisdo e netto. Era, del resto, un lavoro antico come un rito ripetuto da sempre. Lo avevano fatto i loro genitori e prima ancora i vecchi dei cui costumi si parlava certe volte con un misto di rilevanza e di mistero; da generazioni si lavorava così e mi portavano con loro perché potessi farlo io pure con la stessa abilità con cui lo compivano.
Veniva la nonna a raccogliere i rami e con la sua solita voce altezzosa, mi dava gli ordini: «Invece di stare come un babbeo aiutami a fare qualche fascina; sei buono a lamentarti di tutto, ma se devi fare un lavoro quanto un dito…» Questi erano complimenti perché di solito investiva con arroganza senza accorgersi di essere antipatica. A me toccava obbedire, ma appena fatti alcuni mucchietti di rami me la squagliavo annoiato facendo il mortificato per le parolacce che la nonna mi rovesciava dietro agitando un ramo come se volesse colpirmi.
(Valerio Volpini, La terra innocente, p. 27)